“Una bella vita”: parole e poesia del lato luminoso del baffo

di Marco Todarello - 12 aprile 2016

Spral_portrait«Sai che ti dico combà? Che abbiamo avuto una bella vita. Ho perso treni, ho sbagliato cose, ma sono contento anche di quelle». Anche nel congedarsi dal mondo, dal silenzio della sua stanza in quello che è stato il suo ultimo eremo a pochi passi da Piramide, a Roma, Stefano Cuzzocrea ha dato a me e a tutti noi una lezione eterna.
Mi guardava fisso negli occhi, e mentre parlava tendeva con fatica la sua mano sulla mia spalla. Non erano, quelle, le parole stanche e rassegnate di chi sa di avere perso anche l’ultima chance, ma piuttosto la consapevole presa di coscienza di un uomo che al mondo ha dato moltissimo e ha ricevuto altrettanto.

Partecipazione, passione, energia. Amore. Stefano era questo e molto altro.

E mai come adesso sarebbero più calzanti le parole che mi scrisse una sera: «Sai, il ricordo è spesso più affascinante della realtà: a parte la meditazione e il confronto col quotidiano, il tempo serve a scartavetrare le sensazioni e a levigare le visioni, il punto di vista, magari depurando dai dolori il racconto; il dolore si scorda in fretta…».
Non è facile lasciarselo alle spalle, il dolore, ma nell’anniversario della sua morte sono convinto che in questo processo di superamento – e di cui il sito e l’associazione 2BePop sono l’espressione migliore – l’esempio della sua battaglia per la vita sia stato fondamentale.

Quando l’ho conosciuto, in una torrida sera di luglio del 1995, dal palco sgangherato di una piazzetta di Palmi, il mio paese, dispensava rime in freestyle. Era piccolo di statura, ma immenso per l’energia che riusciva a trasmettere. Non gli si staccava il sorriso dalle labbra e fosse stato per lui non avrebbe mai smesso. All’amico comune che mi aveva portato lì quella sera dissi: «Io questo lo devo conoscere». Ne seguì una bella serata di birra, chiacchiere e sogni ad occhi aperti, conclusa con un bagno al mare poco prima dell’alba.
Da allora si è creata tra noi una connessione mai più perduta, anche nei successivi, primi anni da “ragazzo padre”, come amava definirsi, in cui ci siamo visti e sentiti pochissimo.

“Combà”, come lo chiamavo io a sfottò, riproducendo la lingua dell’alto tirreno cosentino, aveva la capacità di instaurare con le persone un rapporto unico e speciale. Coglieva in ogni carattere i punti di accesso più adatti e si accomodava. Lo faceva in modo delicato, profondo, e gli bastavano pochi minuti. Questo è il primo dei motivi che lo rendevano una persona fuori dal comune, ed è anche la ragione per cui è stato così amato.
La musica, che della sua vita è stata la colonna portante, nel nostro rapporto era marginale, eppure anche attraverso di essa riusciva a toccarmi l’anima e perfino a rivelarmi cose di me stesso che ignoravo. Una sera mi disse: «A te piace Niccolò Fabi perché, più che con la musica, ti emozioni soprattutto con le parole».

Spral, o meglio King Spral, come era conosciuto nel mondo del rap, era uno e trino (se potesse leggere che l’ho definito così, mi risponderebbe con una battuta delle sue: «pillamarò combà, a Paola già tenimm a San Francesco, nu santo basta e avanza»).

Il giullare. Passare una serata con Stefano era una garanzia di successo: si cominciava da un concerto o da una cena e poi si finiva su un autobus, alle 5 del mattino, discettando di astronomia con un trans prossimo alla pensione.
Una sera convinse due turiste australiane che io fossi un cantante di successo tanto che ce le ritrovammo appresso per buona parte della serata, fissate che dovevo farmi una foto con loro o almeno lasciargli un autografo.
Erano, quelle notti in sua compagnia, degne rappresentanti di quel realismo magico della letteratura in cui i personaggi si abbandonano alla magia, l’assecondano: ciò che autori come García Marquez o Borges inventavano nei loro romanzi, Cuzzo te lo faceva succedere davvero.
Molte sue battute nascevano in un attimo da assonanze sonore, ma anche mentali. Una volta, al mio «combà ti devo lasciare, devo andare all’outlet fuori città», lui rispose sarcastico, parafrasando Eros Ramazzotti: «Nato agli outlet di periferia, là dove di diesel non ce n’è…».
Alcune sue espressioni sono diventate per amici e conoscenti un punto di riferimento, fino a diventare le basi di un vero e proprio linguaggio: vi voglio bene a entrambi tutti e tre, uè pupo, monello!, pupacchiotti, a gogò, pizzirì, juvinò, e cose…, mi HO comprato un disco fighissimo, è inutile che dici di no, u vì?, raccontano del suo eclettismo, della sua capacità di lasciare segni e simboli, oltre che contenuti.

Lo psicologo/filosofo. Spral possedeva quella rara capacità di guardare dentro le persone e di decifrarle, le “pittava” proprio, e difficilmente si sbagliava. Nelle nostre lunghe chiacchierate imparavo sempre qualcosa: del mondo, di lui, e anche di me. E sulle questioni di cuore era il migliore consulente che si potesse avere.
Una volta, mentre guardavamo una foto in cui avevamo un’espressione felice, commentò: «Quanto è bella la felicità: ci concede una vita avvincente, che dura meno di quella reale ma che è ancora più reale, tant’è che ci fa restare in piedi, sorretti da quel vento che i disperati forse non sanno chiamare più neppure speranza».
Tanto disponibile all’ascolto di vite e problemi degli altri, e al contempo altrettanto duro e poco indulgente con sé stesso: non si perdonava nulla o quasi, nei momenti più brutti non era facile tirarlo su, ma credo che proprio su questa alternanza si fondasse la sua personalità, perché il dare tanto agli altri comporta il togliere a sé stessi.

Il giornalista. «Da bambino volevo fare il giornalista e ascoltavo Stereodrom, di notte, facendo finta di dormire, adesso con i miei eroi di quando ero piccolo collaboriamo alle stesse riviste». In questa frase della prefazione al suo libro Ho un complesso rock (Round Robin, 2015) c’è l’essenza del Cuzzo giornalista, il sogno che poi lo avrebbe portato lontano. Un mestiere bello e maledetto e che a tanti della nostra generazione ha dato anche parecchie delusioni, e Stefano non ne è stato immune.  Ha sofferto molto la precarietà, le corsie preferenziali, le storture vecchie e nuove del sistema: «vedi, è un po’ per questo considerare la musica un interesse per adolescenti che i quotidiani parlano solo della Pausini e che a scriverne siano i soliti vecchi tromboni», mi disse una volta.
Ed è stato un buon giornalista, nonostante le difficoltà. Cercava sempre di andare oltre le apparenze, ad esempio intrufolandosi nei backstage o raccontando l’aneddoto personale di un artista. A volte anticipava mode e tendenze. È stato incredibilmente prolifico, in certi periodi una vera macchina da guerra della scrittura, e degli eventi era in grado di trasmettere l’atmosfera, capacità fondamentale ma non scontata per un giornalista. Leggendo le sue righe ci arriva il suono stonato dei soundcheck e l’odore dell’aria consumata nei palazzetti.

Tre dimensioni che però si fondevano alla perfezione e, per esprimersi, ognuna aveva bisogno delle altre due.

Quando la vita lo ha chiamato alla sfida più difficile, la sua forza si è rivelata in tutta la sua evidenza: lo abbiamo visto andare ai concerti con il flacone della chemio attaccato ai pantaloni; assistere e consolare gli amici con i loro guai anche nei momenti più duri della malattia; pensare e realizzare progetti; vivere, insomma, ogni giorno, non come se fosse l’ultimo ma come il primo.  Ed ecco un’altra lezione, forse la più grande, che ci ha lasciato King Spral.

Dissacrante, mai banale, Stefano diceva sempre la verità, raramente era disposto a compromessi e non perché avesse paura di qualcosa, ma perché era un puro, onesto nel profondo.
In una società come quella del nostro tempo, le persone come lui sono le prime a soffrire, ed è anche per questo se si definiva «nostalgico con il mondo, non con la gente». Tuttavia, alla fine, credo che nel complesso abbia vinto lui.

Ciao amico mio. «Ci vedremo di là. Sì, pace per la mente. Pace veramente».