L’intervista agli Esperanza

di 2bePOP - 9 maggio 2013

foto di Mattia BuffoliÈ una questione di prospettive. Si sarebbe potuto iniziare ribadendo che tutto il mondo è paese ma non è così. Milano, per quanto l’appellativo di metropoli gli si addica per il primato delle linee metro e poco altro, ha le stesse dinamiche di tutto il resto d’Italia, piccoli centri compresi. Il resto è una questione di dimensioni, come direbbe una femminuccia che conosce più letti che posizioni (giusto per non offendere la categoria e il rapporto con l’intimità corporea) o che non ha compreso, semplicemente, la differenza tra un pene e un braccio. E poi, di quanto sia avanti il capoluogo lombardo si è già detto in questa sede parlando di Elita e del Design Week. È proprio lì e allora che si è svolta questa chiacchierata con gli Esperanza.

Che band, wow. Ogni città ha il gruppo che si merita e il terzetto sintetizza benissimo pregi e difetti di quella che è, per antonomasia, la capitale italiana del business e, quindi, anche di quello musicale.  I curricula contano. E infatti Matteo Lavagna era parte dell’epoca più bella dei Disco Drive, band di culto e seminale di quello che viene indicato come il fenomeno indie partito negli anni zero e poi regredito in frantumazioni di una attimo cantautorale che passerà. È uno che non ci è cascato in sostanza. Con lui c’è Carlo Alberto Dall’Amico, in arte Cècile, uno dei fenomeni della nuova italo disco o come l’ha definita Gomma, facendo riecheggiare l’esordio della techno detroitiana, the new italian house. Un genietto. Non a caso è proprio la stessa label tedesca a dare i natali a questo terzetto in odor di navigli. Sì, terzetto, perché con loro c’è anche Sergio Maggioni, ex Hot Gossip e chitarrista capace di suonare ispirazioni di Santana e degli Iron Maiden in contesti sminuzzati e riequalizzati ad hoc, un po’ come si fa in genere con il campionamento.

È proprio lui che ci dà il benvenuto. Sono tutti stanchi, non solo perché è l’ultimo giorno del festival ma, soprattutto, per via di un tour di tre date, partito da Milano e approdato poi a Roma e Pescara, sempre sulle ali della Red Bull. È stata proprio questa bibita a dargli l’energia necessaria a calcare il palco del prestigioso Sonar due anni fa, ai primordi della carriera. Perché anche nella città del business le pastette contano.

Certo, l’energy drink per eccellenza ha costruito il nuovo panorama della musica internazionale, fornendo spunti, corsi didattici, finanziamenti e investimenti che guardano al talento e alla professionalità e non alle clientele. Basta dire che quella basilare esperienza chiamata Homegroove era gestita qui in Italia, per loro, da Alioscia, il leader dei Casino Royale, l’unica vera band milanese capace di poter essere paragonata ai colleghi esteri (i Bluvertigo erano di Monza), ed oggi padrino degli Esperanza, il primo dei loro fan, in un passaggio di testimone che fa confluire le epoche in quelli che la fisica chiama vasi comunicanti.

“Italia per noi è giusto un rodaggio, miriamo più ad avere una visibilità all’estero”, ci racconta Matteo, che è un po’ il portavoce del gruppo. “A Milano c’è tanta gente che fa un mare di cose, ciò non vuol dire che esista una scena”. Difatti lui e Carlo vivono da qualche mese a Berlino. Hanno fatto bene. E poi tutti, prima o poi migrano verso nord, come si diceva all’inizio è solo una questione di prospettive. Il fatto è che Milano ha sempre avuto un confronto ottimo e privilegiato con tutto ciò che viene da fuori confine, una sorta di esterofilia che soffre di vertigini.

A loro due, comunque, partire è servito per raccogliere le idee. “Avevamo bisogno di tempo da dedicare alla scrittura”, rispondono quasi all’unisono. E sono molte le affermazioni quasi corali che caratterizzano la conversazione. Un’altra riguarda i testi: “Per scriverne bisogna avere qualcosa da dire”. Che gli faccia paura esporsi? Sergio, a dire il vero, ha scritto addirittura qualcosa in Italiano: “Non disdegniamo affatto il poter cantare nella nostra lingua e il cantare in generale” ribadisce Matteo denotando una distanza dai dogmi dell’hypsteria indie del Belpaese. Bravi, ma questo si è già detto, e davvero indipendenti dalle prassi degenerate e preconcette a quanto pare. Difatti cercano prospettive più ampie. “Il confronto è basilare”, secondo Carlo, e dunque meglio sentire più voci e in più lingue.

foto di Mattia Buffoli

A fargli venire la voglia di cantare ci ha pensato Jassie.  Jesse Boykins è diventato una sorta di quarto Esperanza: li ha sentiti al Sonar e da allora ha compreso che alla band mancava un leader, anzi un cantante, perché come leader Matteo sembra funzioni benone in ambito pratico. Si è quindi dedicato a loro ed è stato il cooprotagonista di questo piccolo tour di tre date. A tratti gli ha rubato la scena. A tratti si è limitato a fare pezzi che di innovativo hanno solo la vicinanza con D’Angelo e il nu-soul, si potrebbe sollevare con sarcasmo. Ma il trio ci tranquillizza: “Nel nuovo disco canterà solo uno o due pezzi, uno di sicuro: è quello che abbiamo fatto nei live, non ha un titolo ma lui lo chiama One more gin”. Menomale, viene da dire, anche perché ricorda parecchio il nome di un pezzo di Criss Brown, e questo può anche bastare. Del resto non si può avere tutto dalla vita e gli addominali sono già molto, avrebbe potuto suggerie Costantino Vitagliano.

Loro non ci sarebbero mai cascati: gli Esperanza, proprio in merito a questo atteso secondo album, hanno ottime intuizioni. La prima? “La necessità di un direttore artistico; ci sarebbe un’idea che potrebbe concretizzarsi ma per scaramanzia non facciamo nomi”. Che si tratti di Caribou? Che si siano fatti ispirare dall’intellettualismo psichedelico canadese non ne hanno mai fatto mistero; però la cosa sarebbe troppo scontata e loro non lo sono affatto. Perché? Uno per il procedere alla vecchia maniera: “Abbiamo registrato tra i 15 e i 23 nuovi pezzi e molti hanno delle potenzialità pop, ma potrebbero anche non finire nel disco”; due per una statuizione tutta nuova per loro: “Vorremmo tentare di eliminare del tutto le sequenze, improvvisare senza nessuna ancora”, un po’ come i trapezisti senza rete insomma. Soprattutto Carlo pensa che i loop siano deleteri e rischino di compromettere gli show: “Paradossalmente sarebbe più facile farne a meno, anche perché se poi un giorno non dovessero partire sarebbe la fine”.

Matteo, dal canto suo, non è affatto nuovo ad un’esperienza di questo tipo: cavoli, era nei Disco Drive. È proprio da lì che viene l’idea di realizzare delle vere e proprie canzoni: dalla collaborazione con Banjo Or Freakout, anche lui in quello stesso progetto torinese ed anche lui emigrato verso altri lidi.  Le certezze maturate ad inizio carriera dal trio sono arrivate di conseguenza: “Quando abbiamo sentito Michael Mayer suonare il nostro remix di Walls, uscito per Royality , abbiamo avuto la certezza di aver fatto centro”.

In effetti si tratta di una delle poche cose buone uscite dall’Italia, musicalmente, negli ultimi due anni, almeno in un’ottica da esportazione. Per non parlare della dormiente Milano, che, comunque, sembra molto attenta a questi suoi beniamini.  I Tunnel era stracolmo, durante la loro performance, ed erano tutti entusiasti. Non è forse per la tendenza del Belpaese a tramutare gli show in feste di compleanno? Matteo nega fermamente. Carlo, più giovane e quindi più pertinente all’urgenza propria al punk, invece, è pienamente d’accordo.

Ironia della sorte, non gli va di parlare della data pescarese della sera prima. Pare che metà del pubblico fosse lì per una festa di laurea, ma il dj Fabrizio Mammarella abbia elegantemente spento la musica, nell’altra sala, per favorire la concentrazione degli spettatori sotto il palco; ha fatto l’errore, però, di riattaccarla una ventina di  minuti prima della fine, lasciando il gruppo un po’ troppo solo sul finale. Insomma, posto che è una questione di prospettive, il resto sembra una differenza effimera tra feste di compleanni e lauree. Se tutto il mondo fosse paese sarebbe davvero una rovina.

Stefano Cuzzocrea