Primavera Sound 2013 (venerdì 24 maggio)

di 2bePOP - 25 maggio 2013

foto di Serena Belcastro

foto di Serena Belcastro

Si torna a Roma. No, nessun aereo che conduca verso casa, non ancora. Il secondo giorno al Forum di Barcellona, però, inizia in compagnia di una band capitolina. Campanilismo? Sempre meglio che cantare forza Italia al Camp Nou. E poi gli Honeybird & The Birdies riassumono bene il momento: dentro hanno l’esterofilia verso gli Usa, la cantante è americana, oltre al variopinto spirito migratorio della patchanka, il funk dei bei tempi, quello del post dolce vita, una spolverata di antagonismo, che musicalmente è figlio dei 90 e oggi va in bici, lungo le vie del Pigneto state of mind, tra eco-sostenibilità,  sbronze a base di vini bio e velleità vegane. Bravi e sintomatici insomma. E poi la lontananza si fa sentire, nel bene e nel male. Tanto che da lì in poi parte la serata nostalgia.

Il venerdì del Primavera è dedicato proprio alla nostalgia. Va da sé che una puntatina al Pitchfork sarebbe fuori tema. Dunque l’itinerario prevede passato e passato, passato in tutte le salse, compresa quella alioli, che da ste parti va per la maggiore. Infatti c’è spazio pure per i fantasmi delle edizioni passate, in questo itinerario a ritroso. Ma procediamo con ordine.

Django Django quindi. I ragazzetti sembrano uomini adesso, a distanza di poco più di un anno dal primo vero disco. Il successo li ha forgiati. Dimagriti e invecchiati, con un cambio di uniforme e alcune nuove teorie sull’elettronica, ecco come sono diventati. Partono morriconiani ovviamente. Eppure anche in questo loro tributo fa capolino l’Uk dei bei bassi. È tutto traslato su costruzioni che si arricchiscono di pulsioni electro. Più coinvolgenti insomma. Peccato per le cosucce che strizzano l’occhio all’house, ma non si può avere tutto dalla vita e la loro sta andando benone. Promossi per vigore e astaticità, questo è chiaro, eppure ci mancano già i loro timidi esordi. Ma non ci si siede sugli allori, ed è un bene, anche perché sono ancora le prime foglie. La pianta deve crescere.

Il tronco degli Shellac, invece, è secolare. Il power trio è sempreverde. E che gli si può obiettare? Potenza asciutta e coriacea di un rock che non muore mai. Basilari come basso, chitarra, batteria. Imprescindibili. Il futuro è lontano, ma la linea della aion è un presente al cubo, questo è una certezza.

I Jesus And Mary Chain arrivano subito dopo, sul palco più vicino. Attesissimi. Invecchiatissimi. Validissimi. Ma non superlativi. I volumi catastrofici sono lontani anni luce e le giacchette nere ormai d’ordinanza fanno intuire che di tempo ne è passato tanto, forse troppo. L’emozione è molta e non la guasta neppure il constatare che qualcuno della line-up sia diventato davvero molto simile a Toni Cacone: nessuno osa ridere di loro. Ci si aspettava più trasporto sia dagli ampli che dalla platea, diciamola tutta. Tant’è che il timore di trovarsi improvvisamente di nuovo nel 93, con brufoli sul viso, nu spinello in bocca e na mano dentro a’ sacca, per dirla con Pino, è talmente forte da rischiare il posto in prima fila per i Blur pur di tornare in questo millennio.

Direzione James Blake. Wow. Eppure ci piacerebbe essere detrattori, visto che nel 93 eravamo già maggiorenni e con questa gioventù che slinguazza sulle note di Limit to your love non abbiamo nulla in comune se non qualche amicizia su Facebook, ma il terzetto si riconferma una bomba. Certo, la nostalgia c’è sempre: al Primavera di due anni fa James e i suoi due amichetti avevano amplificato una lotta dura contro le sequenze e oggi stanno cedendo. C’è da dire però che i ritmi sono decisamente più spinti, almeno lungo la linea dei bassi: il mondo trema e sono scosse telluriche che fanno ben sperare. Destabilizzare è la parola d’ordine. Se poi si riesce, come in questo caso, a coniugarla con tre lettere facili facili come quelle della parola pop, allora è il paradiso dei paradossi. Almeno per chi come il sottoscritto ha cliccato mi piace sulla fan page degli ossimori.

Che oggi si appartenga ai giovani o ai non più giovani è un dubbio che rimane. E i  Blur non fanno altro che elevare a potenza il dilemma. Una folla di ragazzine canta a squarciagola tutte le canzoni. Sono signorinelle ancora a prova di cellulite, o almeno sembra così, in più hanno un’ottima memoria per i testi, forse perché li hanno scritti sul diario per sentirli veri. Qualcuna di queste fan è smemorata e lo chiama dildo invece che Damon, ma capita anche nelle migliori famiglie. Di sicuro la band di Albarn ha classe: apre con Boys And Girls, contravvenendo a regole tacite di hit a fine scaletta e favorendo un saltare che porta i beati ultimi, se non nel regno dei cieli, almeno sotto palco, compreso il sottoscritto. L’inizio è scalmanato e il resto diventa intimo. Ogni ritornello suona come quello di Nostalgia canaglia, giusto un tantino più brit. E tutto ciò vale più di un bis: un secondo tempo in piena regola che finisce, joystick in mano, al ritmo della Fifa degli anni 90.

Come tornare nel nostro tempo? Anche se fosse il loro, forse, ci piace, comunque, di più. Certo, l’atteso live dei Knife non è il massimo. Loro non ci sono quasi. L’enorme palco è pieno di ballerini, glitter e lustrini. Una saggio collega ne parla con entusiasmo e meraviglia e uno degli organizzatori del festival italiano che più amo parte subito di topic estatico online. Il disco in effetti è tra i più belli del 2012 e tale resterà. Eppure, se devo dirla tutta, magari mi manca questa sensibilità al teatro. Personalmente penso che siano più onesti i Kinfe a non far finta di suonare rispetto alla direzione artistica che, sapendo cosa stesse comprando, ha venduto un ottimo nome in cartellone e poco altro. E finalmente, dopo, anni, ecco la prima pecca del Primavera. Era pure ora, diamine (2beContinued…)

Stefano Cuzzocrea

  • G

    i really like it