Backwords: una lunga intervista e un secondo ep intitolato solo “Due”

di 2bePOP - 1 dicembre 2013

 

foto di Van Mossevelde

foto di Van Mossevelde

Non c’è futuro. Sembra questa la paura umana più nota. E poi di questi tempi pare addirittura una mannaia sospesa sul collo di noi tutti. Eppure chi si è nutrito del passato ha con sé riserve per affrontare anche questo inverno delle speranze. Pardo lo fa. Il buon vecchio Michele è un intenditore fin dai tempi dei suoi Casino Royale. Proprio oggi sforna, assieme a Tuzzy, su Elastica,  il secondo ep pubblicato sotto la sigla Backwords.

Si intitola “Due”. Uscendo fuori dal restrittivo concetto di scansione temporale ancorata al concetto di kronos, il progetto afferra le proprie radici e le pianta in un quel giardino fiorito che secondo loro è ancora l’adesso. “È  cambiato il mercato e le economie, sono cambiati gli strumenti e la produzione; non serve più avere molto denaro per produrre musica di ottimo livello tecnico: basta un laptop, ma questo non coincide per forza con la qualità dei contenuti. Il racconto, l’idea, l’immaginario rimangono la parte più importante e difficile della musica e spesso coincidono, nei miei gusti, con una stupefacente semplicità”, ci racconta proprio lui riassumendo ovvietà della nuova era e rare visioni di una nitidezza che sa ancora infrangere le frontiere della dozzinalità.

Il sound è minimale. Asciutto ma gonfio di bassi. Ed è proprio in quel suono cupo che si accorda e appoggia a cassa e rullante che questo nuovo nato si riannoda alla storia che ha condotto il suo autore, elevato a potenza, fino a qui. Il rimando è a quel 97, adesso ancora più vicino. “È inevitabile pensarlo e forse non lo confinerei al solo suono del basso: Due utilizza lo stesso approccio alla scrittura di allora. Ho cercato, anche qui, di fissare dentro queste registrazioni quello che mi stava sopra la testa, di riordinare i suoni che ho collezionato nei miei ascolti (e non solo) e di raccontarlo con un alfabeto minimale”, confessa Michele confermando le nostre impressioni e rimettendo mano ad un album seminale di due decenni fa. E a quanto pare non siamo gli unici ad avvertire questo cordone ombelicale: “Alessio Manna mi dice che Backwords suona molto come un CRX denudato e senza parole, e mi ci ritrovo; e, comunque, abbasso la nostalgia sempre, difatti io e Manna ci siamo ritrovati e insieme stiamo producendo la sua prossima uscita come Black Job”, ci anticipa sempre lui, mentre ascoltiamo in anteprima le tracce di questo secondo disco spaziale.

Il singolo è emblematico ma non esaustivo. Si avvertono solo alcune delle componenti essenziali di Due, a dire il vero, ma il video, girato da un Pardo anche videomaker, sancisce che è lui il regista di una marea di episodi chiave di questa lunga saga. “Ho realizzato Il video di Tract usando riprese che ho collezionato nel tempo (con camere diverse e svariati supporti), insomma ho costruito un piccolo archivio di suggestioni che utilizzo proprio come quando si usa una libreria di suoni o di campioni. Del resto, i software di montaggio sono esattamente comparabili ai software per fare musica: una time line che scorre a tempo e su cui si possono appoggiare in questo caso sequenze video. L’estetica che governa questi procedimenti è, nella mia testa, esattamente sovrapponibile al mio modo di fare e comporre musica”.

Ecco il punto: mentre i Casino Royale componevano le vie di fuga del rock italiano verso il pop, rendendoli entrambi contenitori onnivori, Michele, la leggenda vuole, si impegnava oltre che a suonare anche a seguire i loro altisonanti produttori, attentamente, per carpirne i segreti. “Beh, dentro i Casino sono sempre stato l’uomo dei bottoni, più per vocazione che altro. La mia curiosità nel conoscere il funzionamento delle macchine (campionatori, midi, synth etc…) coincide con il piacere che ne traggo nel venirne a capo. Mi salvano poi una certa indolenza e mancanza di costanza, che mi fanno rimanere in un limbo semi-professionale e che mi serve per usare/piegare questi tools al fine di arrivare a qualcos’altro, a quell’estetica che inseguo nella composizione. Dai produttori ho imparato che non c’e’ una regola, quindi ho imparato tutto e nulla; rimane la convinzione che sta tutto nel non perdere il tuo punto di vista, e non è facile”.

Ma non è giusto fraintendere tutto il discorso: sebbene nel progetto Backwords ci siano le pregresse vicende dei Casino Royale, alti e soprattutto bassi compresi, Due ha la freschezza futuribile che sa distanziarsi anche da un passato tanto corposo e importante. Semmai il legato con l’antichità lo trova in un rapporto discendente con l’Africa, sebbene vincolato alle care vecchie ottave europee e del nuovo mondo. “Sì, è un progetto nuovo, senza compromessi (mi tolgo dalle scatole tutta una serie di preoccupazioni, di orizzonti esteri o nostrani). Quando Tuzzy mi ha cercato con l’idea di fare musica per la sua neonata Elastica, la sua idea era di riconnettere il mondo musicale con cui era cresciuto coniugandolo alle nuove tendenze. Abbiamo iniziato subito a scrivere e buttare giù idee, ma abbiamo sempre tentennato. Ci è voluto un percorso più lungo per fissare delle coordinate sonore con un carattere solido, ed ora ci siamo. La sensazione che sto avendo è che il momento della sperimentazione sia questo, quello che stiamo vivendo; penso a produttori come Flying Lotus, a etichette come L.I.E.S. Records: piccole realtà che fanno breccia essenzialmente con la qualità. Le regole del mercato vacillano, è il momento del verace. Una fascinazione per il suono delle registrazioni africane la subisco e la uso. Diciamo anche che ho voluto inserire questo colore dentro tutti i pezzi del nostro secondo ep, come una sorta di marchio. Ma riconosco che sono molto collegate al sound più che al rimando alla cultura musicale africana. Devo confessare che spesso mi capita di rimanere affascinato dal suono di Radio Maria, registrazioni fatte con apparecchi desueti ma di assoluta qualità. Poi ovviamente rimango inorridito dal messaggio e dai contenuti. Forse lo userò nel futuro come un dadaista”.

Ed eccolo l’adesso. Ecco ancora il passato che per assurdo può diventare futuro per analogie e transistor per poi digitalizzarti in file compressi e idee di tutt’altro avviso. Sembrano frasi senza senso eppure descrivono bene questo concetto di realtà che le risposte di Pardo mettono, con fare didascalico, sotto queste nuovi brani. Di brani del resto si tratta e non di canzoni: “I cantati sono fonte di problemi, non sono un grande melodista e la voce narrante potrebbe essere un elemento di distrazione per quello che stiamo cercando di raccontare ora. Forse sarebbe anche difficile trovare un interprete adatto al momento; di Alan Vega ce n’è uno solo d’altronde”.

E se ora tutto sembra chiaro, restano però un paio di dubbi. Il primo è legato ai live: non si risolveranno mica in una serie di riproduzioni seriali? “Non ci è capitato molto di suonare dal vivo, se non 5/6 volte, ed ogni performance è stata diversa: nuovi approcci, nuove scalette, etc. Siamo stati sempre in bilico fra un dj set e l’ormai consueto live set. Ora stiamo studiando uno show che utilizzi come parte integrante anche dei visuals e degli interventi, chiamiamoli, di registrazione live, come succede in studio: si registra un’improvvisazione e la si trasforma immediatamente in un loop, o qualcosa del genere, e poi  lo si inserisce immediatamente nella texture sonora”.

L’altra perplessità è più filosofica e si lega a quel famoso “tutto e il contrario di tutto” che sembra ancora ispirare l’intera saga: dentro questo secondo capitolo di Backwods c’è dunque più istinto o più dedizione? “Un po’ tutti e due: da una parte un processo di riappropriazione, un ri-riconoscersi dentro quell’approccio che raccontavo prima, e dall’altra, di conseguenza, è anche un percorso premeditato. La dedizione invece fa parte del processo tecnico di finalizzazione, mixaggio, master etc. e deve essere dosata con saggezza per non corrompere l’istinto”.

A questo punto, lasciata in un angolo la nostalgia, ragionando ancora per ossimori e ricostruendo il futuro guadando il passato, torna in mente il Decalogo di Royality: dieci comandamenti che alla fine dei ’90 tentavano di dettare nuove regole ad un mercato discografico stantio. Oggi quelle regole sono le dinamiche normali di un mondo che è più vecchio di 20 anni e che non sa dire grazie a chi lo aveva descritto prima che la realtà si adeguasse al sogno di qualche visionario casinista. “Sì, il decalogo di CR, seppure si trattasse di una vera provocazione (e sta di fatto che poi con una major ci siamo ricapitati), era nutrito dalla nostra insoddisfazione nel trovarci dentro un mercato discografico che stava sbagliando rotta, un Titanic che stava palesemente andando contro un iceberg. I marinai, insieme ad ufficiali e comandanti, ben lo sapevano ma, per ignoranza o forse ancor peggio per pigrizia, hanno lasciato che succedesse. È mancata la fiducia negli artisti e gli artisti hanno perso fiducia in se stessi e nel ruolo che dovrebbero giocare dentro questa partita”.

Ed eccolo sul finale un po’ di pessimismo. Ecco il timore umano del quale si parlava all’inizio. Ecco il futuro tetro e incerto che pare inghiottire le speranze. Un attimo di sconforto capita anche agli eroi. È normale. Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Ci vediamo di là?

 

Stefano Cuzzocrea