Jungle live a Milano: ecco il report

di 2bePOP - 26 novembre 2014

jungle2Di cazzate se ne sentono tante. La prima, dopo gli inconvenienti tecnici al C2C, è che i Jungle siano una fregatura. Niente di più sbagliato. Ma procediamo per ordine. La seconda fesseria è descrivere la band come intenta a seguire il trend lanciato da James Blake. Insomma, per questi e altri 5 motivi non aver visto il loro live al Magnolia di Milano è uno di quei peccati da confessare al mondo o almeno ad un prete, dipende dai credo. Di restare a barzotto capita a tutti. Ma questo vuol solo dire che la data meneghina del più giovanile fenomeno soul-funk britannico dell’anno può essere considerata la sua vera prima volta italiana. Certo, se avessero fatto un centro perfetto anche a Torino, durante il festival dancereccio più importante dello Scarpone, ne avrebbero guadagnato un po’ tutti: dal pubblico, ai promoter, ai protagonisti. Ma è un po’ come se un giovane sacerdote si emozionasse celebrando messa a San Pietro e fosse invece molto più convincente nella sua parrocchia di periferia. Perché questa metafora? Semplice: i Jungle sono i cultori di una tradizione antica, di un culto che in Uk non ha mai smesso di idolatrare il northernsoul e che ha necessità di coniugarsi al presente. Loro sono qui per questo.

Nel nome portano un’altra sfaccettatura del sound inglese, ma di natura diversissima. Non c’è quasi nulla che richiami al drum’n’bass, sebbene la sezione ritmica sia esemplare e inattaccabile e l’elettronica  sussurrata quanto basilare. Senza contare un percussionista al quale è dato il compito di portare ben oltre i brani del disco d’esordio e di spingere il live ben oltre i connotati propri all’era delle quantizzazioni da studio.

La cosa migliore? Quattro voci che intonano all’unisono, senza controcanti, canzoni che accendono i cuori. Ed anche quando si urla in faccia il ritornello di Drop ad un amore che potrebbe essere gli sgoccioli, ecco spuntare la passione già al pezzo successivo. Il tema portante è proprio il cardioritmo, l’infatuazione, le lenzuola sudate, i diari segreti da far diventare plateali. Tutte peculiarità del soul e di un’adolescenza che appartiene, a rigor’ d’anagrafe a J & T, intestatari del progetto, come a tutti noi, senza vincoli d’età o di cicatrici non rimarginate intorno alla aorta. Dolcissimi.

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Come suona il tutto? Come un romanzo in fieri da raccontare ad un’intervistatrice sconosciuta. Una di quelle con la fascia di lana in testa e lo smartphone in mano, seguendo il dress-code della serata. Ma, andando nello specifico e lasciando in ombra mood e testi, è come se gli Lcd Sounsystem suonassero Kool And The Gang e non viceversa. Finezze contemporanee. E se proprio si vuole chiamare in causa James Blake lo si può fare sottolineando l’unica cosa che lo accomuna a loro: decisamente molto meglio in versione live che su disco. La cosa è indiscutibile.  Niente jazz però: un sudatissimo funk che riempie l’aria di vibre in bilico tra i 70 e gli anni zero, confidando nella contemporaneità, ma senza seguire i trend. Ok, l’hype c’è eccome. Nonostante in città pare non ci sia una locandina, il posto è pieno. E poi tutte le manovre della band: l’anonimato di J & T, oggi finalmente ormai noti come Tom McFarland e Josh Lloyd-Watson, amici d’infanzia e dirimpettai, che hanno giocato col mistero fino all’uscita dell’album per poi dichiarare che la band è un collettivo aperto. Senza contare che già dai prezzi delle t-shirt e dalla scelta di fabbricare pure un giubbotto apposito si intuisce quanto per loro l’immagine sia importante. Difatti, anche la scenografia, con il logo imperante e luci a scaldarne i tratti, la dice lunga su quanto studio ci sia dietro.

Il gruppo è coeso, non solo su questo, e delizia. Se c’è un difetto è proprio l’eccessiva coerenza: nessun picco di genialità fuori dalle righe tracciate dai brani, a parte le fantasiose percussioni che spingono la performance quasi una ventina di minuti oltre la durata del disco. I giovinastri se la cavano e ottengono tutto l’amore che seminano intorno. Avere 20 anni e portare a casa una vittoria come questa è una cosa rara da queste parti. Sebbene a casa loro sia diverso, qui si è giovani a 40 anni e i loro coetanei se la prendono comoda quindi. Eppure in tanti si sono scomodati a farsi km per ballare sulle note del cuore. Ed è bastato il sorriso del corista emulo di Roger Nelson (in arte Prince) per lasciarsi andare a movimenti che richiamano Don Lurio e gli anni 70. Tutto il resto è amore molto contemporaneo. Non raccontiamoci altre cazzate.

Stefano Cuzzocrea