Populous, il mal d’Africa e un po’ di altri virus contemporanei

di 2bePOP - 15 dicembre 2014

populous2Era un ragazzo prodigio. Appena ventenne incideva per la tedesca Morr Music. Era approdato lì con una email, quando internet era un protocollo e non la parte predominante delle nostre giornate. Un precursore? Semplicemente un ragazzetto libero ed estroso al punto giusto magari. Uno che si divertiva a destrutturare l’hip hop e traslarlo in maniera astratta in album che avevano un senso poetico, sebbene le voci fossero registrate nel cesso di casa. Era così insomma. Oggi il suo Night Safari compare nelle classifiche di fine anno e viene recensito sui più blasonati magazine telematici internazionali, Pitchfork in testa. Dentro c’è la storia di un uomo. Già, perché il titolo presuppone un viaggio, tra suoni etnici e natura, ad esempio, ma forse è solo una metafora della quale non si rende conto neppure lui.

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E pensare che dieci anni fa Andrea Mangia, in arte Populous, era talmente ostico nei confronti del reggae e della pizzica del suo Salento da porsi agli antipodi, in astio con quella che era una rivalutazione etnica e antropologica di una regione ancora in balia dei gommoni. Oggi il cerchio si chiude invece? “Non ci avevo mai pensato ma potrebbe anche essere. Nella collezione di dischi di mio padre non sono mai mancati gli album da etnomusicologo. Brasile, Africa e anche Salento. Ha tutti i dischi di taranta possibili immaginabili, anche i più grezzi e scrausi. Io l’ho sempre preso in giro per questo. Non credo siano cose che mi abbiano influenzato consciamente. Dev’essere stato un processo molto più oscuro e subdolo”.

La vita ci cambia. Tant’è che, sebbene il disco sembri in linea con label come la Hyperdub, questa volta Andrea non ha voluto scomodare nessuno o mirare altrove: “Non sono un grandissimo fan di Hyperdub. Mi piace ma non è un mio punto di riferimento. Sono altre le label che seguo con interesse: Stones Throw, Soundway, Brainfeeder, Friends Of Friend, Enchufada. Sinceramente non mi sono proprio sforzato di mandare il materiale in giro. Sapevo già con chi lavorare ed ero sereno così”. Si potrebbe addirittura parlare di disco della maturità. “Una parte di me sta vivendo ancora i tumulti post-adolescenziale, mentre il resto è tutto più a fuoco. Sono indubbiamente una persona più sicura e forse questo aspetto ha finito per influenzare anche le ultime produzioni”. E difatti ci si trova difronte a pezzi che hanno un valore ossimoro: si muovono verso il clubbing pur essendo strutturati per star comodi in salone, si allineano al pop anche se guardano ben altre profondità emotive e spigolose. “Indubbiamente è un album d’ascolto, anche se molte persone mi scrivono per dirmi che adorano ballare Brasilia e Quad boogie. La scaletta è costruita appositamente per dare l’idea di viaggio. La costante è la notte, ma gli scenari e i panorami cambiano di continuo”.

Sarà per queste tinte equatoriali e sudate quanto votate alla tintarella di luna magari, ma questo safari si impregna di dionisiaci romanticismi e profumi di intimità tra corpi. È un album che si intinge di sesso. “La musica etnica, i rituali, i suoni animaleschi amplificano questa tua sensazione. Sexy è un aggettivo che adoro”. 

E qui si arriva al fulcro. Alla base di tutto c’è una ricerca delle radici, una visceralità dalle movenze animalesche che richiama l’istinto, la terra, il sangue, l’Africa, la prateria e il deserto, gli altipiani sudamericani e le coste dell’Australia. Lo ha fatto apposta. Ma come: usando strumenti etnici o affidandosi alla sua fida fede nei tempi moderni e cibernetici? “Un mix delle due cose. Non volevo fare un disco di musica tribale e neppure uno di elettronica. Ecco perché anche in fase di produzione ho voluto mischiare le fonti sonore”. Non bisogna tapparsi gli occhi però: questa inflessione verso i richiami world e la global-bass è una questione che sta diventando un nuovo trend. “Assolutamente no: non credo sia ancora universalmente riconosciuto come di moda, come lo è stata la dubstep per esempio. È comunque qualcosa di nicchia. Certo, molti siti di settore ne stanno parlando e la cosa non può che farmi piacere”.

Eppure di fianco a lui si muove una schiera di adepti, anche qui in Italia, che si allineano e fantasticano, tra circuiti e manopole, scegliendo proprio questa direzione. “Con Clap! Clap! e Khalab oltre agli aspetti puramente artistici c’è un’amicizia vera che va avanti da anni ormai. È come se fossero di famiglia per me. Ma in Italia non siamo gli unici a trattare questa materia. Ribongia, Milangeles, Ckrono & Slesh è da un pezzo che stanno spingendo il concetto di “global-bass”. Ora anche Go Dugong e Capibara stanno mutando il loro suono. Sono in buonissima compagnia insomma”. Tutti ragazzetti a modo tra l’altro. Tant’è che sembra quasi che stiano componendo hit per quelle feste pericolose, nel sud del mondo, dove avrebbero paura ad andare. “Ahahaha penso che abbia ragione. In fondo siamo solo degli occidentali che fanno musica sulla base di suggestioni, di viaggi mentali, di foto e video catturati sul web. Siamo dei fottuti impostori! Se io facessi veramente un safari notturno stai tranquillo che mi ritroverebbero nella savana sbranato da qualche felino”.

L’onestà è la qualità che più si apprezza in un artista. Perché di artista si tratta. Come definire altrimenti Popuolus o Andrea? “Andrea Mangia è un nomade alla costante ricerca della sua vera identità. Populous è un poliedrico musicista alla costante ricerca dell’elemento di novità”. Fatta questa distinzione, c’è da chiarire se la tendenza ad appropriarsi della musica africana sia un emulazione o un ennesimo colonialismo. “Entrambe le cose, ma non userei il termine colonizzatore: perché lo reputo inopportuno in questi contesti: stiamo solo facendo musica”.  Ecco la verità. Ecco la base di tutta questa vicenda che riesce a fare il giro del mondo e tornare ad adagiarsi sotto un ulivo, sulle rive dell’est Europa.

Inutile tentare di spiegare troppe cose che restano legate all’istinto e alla voglia di rimettersi in discussione. Alla fine, sebbene si possa declinare ogni pezzo di questa storia in mille direzioni cangianti, non è altro che pop. Splendida e complicatissima popular music. “Non avevo mai considerato il pop come modello espressivo. Ma alcuni miei amici e collaboratori (come Giorgio Tuma e Matilde Davoli) mi hanno pian piano educato. Ascoltare e studiare Nick Drake, Beatles, Antonio Carlos Jobim, Stereolab (solo per citare i primi che mi vengono in mente) è un punto di non ritorno. Ne sono rimasto folgorato e nel mio piccolo provo anch’io a scrivere qualcosa che abbia un retrogusto pop. Naturalmente cerco di farlo deragliare sui miei binari. Non sempre ci riesco, ma quando accade sono molto contento del risultato”.

Ce l’ha fatta invece. E il mondo intero se ne sta accorgendo. Il tutto seguendo semplicemente l’istinto e il desiderio. Non c’è un motivo preciso per il quale si scelga di comporre un disco, o meglio, in questo caso, un album addirittura concettuale. “Non è una cosa che possa facilmente essere spiegata. Anch’io mi sono fatto più volte questa domanda, ma non ho mai avuto risposte soddisfacenti. Accade e basta”. È un viaggio verso se stessi che poi, una volta sgorgato fuori, straripa fino a bagnare la vita di altre persone, contaminandole, impregnandole, o semplicemente sfiorando le loro vite. Un sogno che diventa realtà o che almeno ci prova. E poi? Cosa succederà dopo? Quale sarà il prossimo sogno? Quale ennesima condivisione ci attende nel magico mondo di Andrea? “Sarò il direttore di sala del mio ristorante e voi naturalmente sarete a cena da me”. Del resto la cucina non è mai andata così di moda…

Stefano Cuzzocrea