Ho un complesso rock. Storia di un ragazzo diventato uomo.

di 2bePOP - 21 aprile 2016

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di Andrea Mammone

Ho un complesso rock, libro postumo di Stefano Cuzzocrea, edito da Round Robin Editrice, è  un volume per gli amanti di musica e non solo. Ai tanti cantanti, dj, band, album, “giuristi-musicisti” (pp. 128-131), e al mondo dei “temerari” delle etichette indipendenti (pp. 183-185), si affianca incosciamente dell’altro.

La prosa di Ho un complesso rock, insieme alla musicalita di alcune frasi, ne fanno involontariamente un libro di poesia. “Facciamo spesso poesia senza accorgercene”, scrive il poeta Franco Loi. Inoltre, questo è il libro di un giornalista che ascolta – e “la poesia” Loi continua, “è anche ascolto, ascolto di noi, prima di tutto, e anche ascolto degli altri …. I suoni, infatti, sono fondamentali come guida all’inconscio”.

Leggendo l’Introduzione capisco che è pure un libro che, in parte, racconta una generazione non solo di artisti, bensì di italiani in senso più ampio. Quella, scrive Stefano, che “ha preferito appartenere a quella fetta di umanità che è lontana dai centri decisionali, quella che non sarà mai classe dirigente, quella che tira avanti grazie alla passione. Sa di aver perso molti treni” (p. 8). Questa è la mia generazione, i quarantenni (ed è quella immediatamente precedente e quella subito dopo).

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Il giudizio sulla quale è dato senza tanti giri di parole: “stiamo costruendo la stessa società clientelare che contestavamo, ma in un formato per miserabili” (p. 9). Chi ha familiarità con alcune zone del meridione, e di molte altre parti d’Italia, sa quanto questo sia vero. Tuttavia non saprei se Stefano ha davvero ragione (probabilmente sì). A me sembra che, a volte, più che costruire non abbiamo fatto molto per cambiare. Altre volte siamo stati un’Italia che se n’è semplicemente andata altrove. Fa impressione, però, pensare ai molti che, nonostante gli anni di studio, e di contaminazioni, in giro per l’Italia, si sono immediatamente adagiati alla società dei propri genitori e nonni nel segno del “tanto non può cambiare niente”. In questa frase suona (tanto per usare un verbo in tema con il libro) il fallimento di almeno un paio di generazioni. Immaginate se lo stesso ragionamento fosse stato posto alla base della rivoluzione dell’Illuminismo oppure delle grandi scoperte scientifiche. Il girarsi dall’altra parte, che non appartiene a Ho un complesso rock, è una forma d’ignoranza civica e culturale.

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Dalle pagine del libro si comprende come questo non sconvolga affatto: “L’Italia è un paese molto strano. È uno stivale se visto dall’alto, un controsenso se osservato dal basso. La storia della nostra penisola è ricca d’arte. La cultura è nei mattoni di quasi tutti i palazzi, scorre in ogni goccia dei nostri fiumi. Ma l’agenzia delle entrate è assetata di saper far quadrare i bilanci molto più di quanto i ministeri siano ghiotti di sapere” (p. 80). Questo contribuisce a una società confusa, nella quale, ha ragione Stefano, le radici possono diventare un problema e fonte di pregiudizio. Eppure noi, i ragazzi quarantenni, la generazione del sapere e della tecnologia, dei viaggi senza valigie di cartone e con la conoscenza a portata di un clic, saremmo dovuti andare oltre. Invece il precariato “da lavorativo è diventato culturale” (p. 9). Per varie ragioni si è perpetuato un infantilismo protetto dal paracadute familiare e poi il ritorno a una sudditanza in cui l’ignorante può vincere. Di precariato culturale Stefano e il suo libro ne sono invece completamente privi. C’è la consapevolezza che, nonostante tutto, si siano realizzati i propri sogni (rinunciando nel suo caso a fare l’avvocato). Scelte che mostrano coraggio, e, forse, sana incoscienza.

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2bemanifestoLavorare è un conto, lottare per un lavoro che si ama è tutta un’altra storia. In questo senso Stefano non era più un ragazzo da qualche tempo. Questi suoi scritti lo dimostrano. Alcuni passaggi sono il frutto di riflessioni profonde, danno compiutezza al ragionamento e alle parole. Non dimentichiamoci, infatti, come ricorda ancora Loi, che “la parola ha senso solo in quanto è in rapporto con la profondità del proprio essere, che non è solo il giudizio che dà la mante, ma che è fatta dalle emozioni, dalle sensazioni, dalla memoria”. Questo è uno stato creativo non facile da raggiungere. L’incredibile e affascinante stile narrativo di questo libro non è quindi solo figlio del talento, è soprattutto il prodotto di maturità di un giornalista diventato uno scrittore “pop”, e di  uno scrittore diventato uomo.

 

Ph: 2bePOP, Vanessa Cuda, Round Robin editrice