Ho visto il live dei Doors, oppure erano i Black Angels?

di 2bePOP - 8 ottobre 2013

black angels romaImpossibile? Eppure c’è sempre una prima volta nella vita. Credo di aver visto il live dei Doors nel 2013 e c’era anche Jim Morrison. Poco importa se in realtà erano i Black Angels: quando arrivano gli angeli mica si bada al loro colore o ad altre sottigliezze, o no? Qualcuno gridava “Jimmy” ad Alex Maas e potrebbe sembrare un tiro mancino, certo, ma alla fine il mancino era proprio il cantante. Ce n’era pure un altro ad impugnare la chitarra al contrario su quel palco ma non si trattava di Curt Cobain: ho detto che suonavano gli angeli non i fantasmi.

Del resto, quel sound retrò che la poderosa band insegue è immortale. Lo dimostra l’entusiasmo che alcuni giovincelli di ultima generazione nutrono per complessi dalle influenze simili, i Tame Impala, incensati dai consensi del pubblico teen. Lo confermano una massa di over 40 accorsi in circolo al Circolo degli Artisti per la data romana di questi angeli texani. Un live ruggente come l’era d’oro della musica. Un lunedì da leoni insomma. Con la sala gremita e la sensazione che il rock’n’roll non sia solo patrimonio che spetta ai ragazzini. Un suono senza tempo lascia che trionfi quella psichedelia capace di infrangere le leggi del kronos e arrivare nella contemporaneità ostentando capelli grigi e barbe lunghe fatte di peli duri, barbe non di primo pelo insomma.

Si potrebbe dire in barba alle mode allora. Ed è questo il punto. Avere un credo vuol dire portarlo avanti anche controcorrente. Angeli, angeli.  Un sound ruvido che conduce nel paradiso del vinile saltando a pie’ pari l’era del digitale. È il trionfo dell’analogico e delle chitarre. Già, perché questa band di Austin rifiuta addirittura le tastiere, differendo dalle peculiarità dei Doors almeno un minimo quindi. Ed in quel minimo ci passano i 70 dell’hard rock, gli ottanta del metal e i 90 del grunge, in due parole, appunto, le chitarre, diamine.

In questa celestiale oscurità di delay e accordature rigorosamente aperte la gente muove il capo rapita da un’idea di tempo che getta al diavolo le lancette, perdendosi nei vortici che animano lo sfondo del palco: proiezioni che riportano i trip-test di San Francisco nel mondo del grafic design dei giorni nostri. Il resto lo fa la scaletta, composta, come da copione, dai brani dell’ultimo “The Indigo Meadow” e da un po’ di vecchie perle prese random dalla discografia meno recente del gruppo.

E se pure sembrano un vecchio gruppo di Los Angeles c’è da dire che di band che scimmiottano i Joy Division come gli Editors, o anche più, è pieno il mondo della musica e i loro live scendono giù come acqua fresca. Questa volta, invece, fanculo alle precipitazioni di Manchester, le canzoni avevano il gusto del malto invecchiato nella torba, roba texana che ti faceva uscire fuori, a fine set, con una sbronza maschia e cazzuta. Tutto questo sperando che a mezzanotte, quando si spengono le luci del palco, la magia non si dilegui nel ritorno all’ordinario. Aspirazioni più che lecite per chi è stato rapito un’oretta e poco più dagli angeli.

Stefano Cuzzocrea