Gli Africa Unite e il momento nostalgia

di 2bePOP - 11 aprile 2013

foto di Vanessa Cuda

foto di Vanessa Cuda

È facile sbagliarsi. Del resto il confine tra nostalgici e conservatori è labile. Come definire l’operazione che porta di nuovo sui palchi gli Africa Unite nella formazione di vent’anni fa? L’anniversario di Babilonia e poesia è l’occasione. La tendenza a celebrare il passato è un trend già immortalato nel libro Retromania, dopo un decennio di reunion e compleanni. È solo un tassello di una questione molto più ampia forse.

C’è chi lo definisce un morbo. Altri invece ci hanno ironizzato su: è stato geniale chi ha proposto a Michele, grande addetto alla cucina per estimatori della pasta alla carbonara, di dedicarsi ad altri piatti per almeno due anni, scaldando il terreno e la tavola per una successiva reunion della carbonara sulla lunga distanza.

Eppure la questione Africa Unite è diversa. Non ci sono i ragazzini che popolano le dance hall dei soliti week end: c’è un popolo di trentenni e quarantenni che si abbraccia senza paura di mettere le mani su vecchie cicatrici rischiando di riaprirle, anche perché può darsi che non si sono mai rimarginate del tutto. Tanto che entrando al Balck Out di Roma scappa anche una lacrimuccia.

Non è il solo il tempo ad averci segnato ma anche il contrario. Vedere Casacci prendersi una pausa dai Subsonica e Cato dai Bluebeaters e dalla Soulfull Orchestra, difatti, non è il segno dei tempi; semmai potrebbe esserlo il racimolare qualche euro in tempo di crisi, e di crisi ancor più dilaniante e lunga del mercato discografico se è per questo. Il fine invece è capire come eravamo e cosa è rimasto. La band diventa testimone di un momento passato ancora ma in atto nell’anima, paradosso di una lotta vinta e persa al contempo. Fuori c’è ancora Babilonia, certo, anzi la corruzione è la causa di questo Titanic che affonda, per dirla con De Gregori: accostamento da cui dedurre che la nave fa acqua da tutte le parti già da un bel po’. Eppure sul palco c’è ancora la poesia di allora. Una poesia potenziata e debilitata al contempo: perché anche tra maturità e vecchiaia il confine è labile. Tanto vale intonare i rimpianti e qualche rimorso facendo finta che sia solo una certa goliardia a far muovere i corpi.

Quando viene riesumata Lega la lega tutto questo è ancora più chiaro: il sound è andato un tantino a male però il brano è attualissimo. Vittorie romantiche e sconfitte reali insomma. Ed a subirle in maniera corale ci siamo ancora noi: quelli che il tempo ha fatto fiorire, ha radicato e nutrito, sebbene abbia sconfitto noi e non i Bossiani appena ripromossi, nonostante la loro missione sia diventata l’ennesima testimonianza di come il potere logori, almeno eticamente, chi c’è l’ha.

“Never stop fighting” dichiara Bunna intonando la hit più partigiana del loro repertorio. Ed è ancora coro ed è ancora quello che era. Una lotta non solo politica ma esistenziale: anche perché è con band seminali come la loro che, fuori dai circoli elitari sanremesi, si è condotta una battaglia quotidiana per fare dell’arte un mestiere, della musica una professione, puntando a rimanere puri, certo, ma anche lacerati da una realtà schiacciante. Eppure sono ancora in piedi. Ce l’hanno fatta. Eccoli qui.

Un brano che è brandelli di qualsiasi cosa. Sulla parte dub riaffiorano i 90 della Talking Loud, le ritmiche di Ronni Size, ed anche i nostri vecchi Casino Royale diventano sempre più vicini. Una finezza che promuove un decennio intero. Un decennio da non dimenticare. Una lotta che abbiamo perso dietro le stesse barricate e vinto a mani alzate, battendole a tempo, cambiando per sempre la musica italiana. E se, fuori, questa nuova moda dei cantautori è più conservatrice che nostalgica è un po’ come nei palazzi del potere che salvano la forma e non la sostanza, l’uovo oggi, il passato da celebrare facendo finta che sia invece il domani. Che ipocrisia.

Noi e gli Africa Unite, al contrario, abbiamo scelto un’altra via. La strada del meticciato culturale e della battaglia quotidiana e del rimpianto da non ripetere. Babilonia c’è ancora ma anche quella poesia contrapposta che ci ha condotto di nuovo assieme. “Mi sembra sia un po’ tardi ormai per scegliere di chiudere la porta dei tuoi sensi”. Difatti sono passati 20 anni e siamo ancora qui.

Stefano Cuzzocrea