M come mamma

di 2bePOP - 18 giugno 2013

maradonamadreIeri mi chiama la Questura: mi dicono di andare lì, perchè ha ricevuto la notifica del magistrato di Bologna per i permessi di sussistenza. Mai telefonata in blu fu tanto gradita, visto che dopo due settimane come una mosca nel barattolo ho la possibilità di uscire.

Mi vesto in fretta e per le scale, in una discesa che per me è risalita,  penso più volte se sia meglio prendere la bici e scaricare un po’ i nervi o andare tranquillo a piedi e gustarmi la città. Avendo già seguito le precedenti lettere avrete presto indovinato su quale opzione sia caduta la mia rapida scelta. Prendo la “biga”, come la chiamano qui a Ferrara, e pedalo tutto contento fino a destinazione. Salgo all’Anticrimine e John Goodman reincarnato e con gli occhi azzurri, mi dice che anziché le due ore al giorno previste, la generosa operatrice giurisprudente mi concede un’ora di libertà per fare la spesa e varie, soprattutto varie, ogni due giorni. Per me è comunque una liberazione. Si inizia da subito, quindi scendo pronto a ingozzarmi di aria, immagini, sole e paesaggi metafisici, e dopo aver comunicato telegraficamente il tutto a mia madre, taglio corto per non perdere tempo e vado per montare in sella. Ovviamente la Legge che mi prende di mira non è solo quella forense, perché Mr. Murphy vuole dire la sua: catena di trasmissione fuoriuscita, mi imbratto le mani nonostante l’intervento di un toscano che aspettava il suo amico appena uscito dal carcere, in fila dopo di me a farsi notificare prescrizioni e cose, e la bici, visto che ho sempre coltivato le capacità distruttive delle mie dieci dita e due metacarpi, non riesco a sistemarla. Vado da Simone, il mio biciclettaio artista, gli do quindici euro che gli dovevo- riesco a fare debiti pure con me stesso- e che vagamente ricordavo e l’entusiasmante risultato è che ho perso metà del primo permesso appresso al mio karma color nero grasso di bici, che ancora oggi non sono riuscito a rimuovere del tutto. Ci rido su e aspetto mia sorella Alice, brava, buona, architetto e mamma in seconda, che viene ad accudirmi ignara dei permessi d’aria appena sopraggiunti. Parliamo di tutto, mangiamo e beviamo e alla fine la spiazzo dicendole che so che Muhammad Alì e Stella sono morti, perché gli occhi di mia madre non tradiscono mai. Qualche giorno prima si era data il cambio con Alice per farmi la spesa, era stata una settimana con me, e quando le avevo chiesto dei miei cani, i suoi occhi si erano annacquati recitando parole diverse da quelle che uscivano dalla sua bocca carnosa. Evito di piangere davanti a lei e salgo sulla terrazza, a cercare di non ricordare guardando i comignoli, le catene di rondini che cinguettano la loro estate su di me, con la colonna sonora dei brindisi e delle risate da aperitivo che esalano dalla strada.

E penso a come Sara, la mia santa madre, mi mostrava i tetti delle case di Catania, quando ero poco più che un bebè, dall’alto del nono piano dell’unico grattacielo cittadino, instillandomi quel gusto logorroico per la parola con la minuziosa descrizione di ogni elemento urbano e naturale che ci riempiva lo sguardo, con la fantasia e l’accuratezza che solo chi ti ha partorito può profondere.

Quando sono nato, a testimonianza della mia dannazione futura, mi graffiai la faccia, in segno di protesta per l’essere stato espulso senza previa consultazione in questo mondo qua, e le occhiaie le ho avute da subito, già a tre anni, perché se guardo l’album della mia infanzia affiora prepotente l’inquietudine di cui parlava Seneca nell’unica versione di latino che ricordo del mio liceo Classico, quella che ti porti sempre appresso anche se viaggi tutta la vita, e le canne ancora, giuro, a tre anni non me le facevo, mica come Raina coi bonghetti all’asilo.

Poi crescevo paffuto, il mio blocco non fu come quello di Oskar che percuoteva la Latta, o meglio fu simile nel noumeno e differente nel fenomeno, per scomodare Emanuele, che non studiai alla maturità, dicendo all’esterrefatto professor Sigfrido – che guarda un po’, era esperto di filosofia tedesca- che io ero un genio proprio perché avevo compreso tutta la filosofia senza avere studiato Kant: lui si leccò gli ideali baffi, e visto che lo avevo sfidato a invertire i nostri tagli di capelli in caso di sconfitta di uno dei due all’interrogazione, al posto delle treccine che cadevano sulla mia camicia a fiori Replay in stile Escobar in vacanza iniziò a intravedere il suo taglio SS con leccata di mucca annessa.

Dicevo del mio blocco di nano più alto del mondo, per dirla col Frassica di Quelli della notte che tanto faceva ridere Silvio, il compagno di mia madre dopo la separazione, e lei, e che segnava la mia ritirata a letto pro-scuola.

“Allora dissi, allora decisi, allora risolsi di non diventare in alcun caso un uomo politico né tanto meno un negoziante di generi coloniali, ma di far punto e basta, di rimanere così. E così rimasi, nella misura della mia persona, con questo equipaggiamento, per molti anni.”

Venti  anni di narcosi autoindotta, con pugni sostanze e autodistruzione, in cui ai ricordi davo un senso sbagliato.

Ora posso rimettere tutto insieme, dando significato a un album di foto che diventa la mia Bibbia.

Certo il tempo fa crescere, invecchiare e alla fine morire, ma soprattutto ribalta i ruoli, imponendo ai nostri comportamenti quello che facevano i nostri genitori e viceversa.

Alla povera Sara, mentre dormiva, sempre discreto io, aprivo le palpebre e chiedevo se stesse dormendo, quand’era sveglia se quello che diceva lo dicesse con ironia e ascoltavo prendendo appunti le sue lezioni su Weber, e non avevo ancora 6 anni: la beffa della vita ha voluto che lei mi avrebbe chiesto se fosse sveglia quando mi è venuta a trovare in carceri e tribunali di mezza Italia, e che io le cerchi di spiegare le battute che non capisce perché più Candida dei personaggi di Sciascia e Voltaire messi assieme, e di insegnarle il suo mestiere di politologa con la consueta modestia che mi ha sempre contraddistinto.

Mia mamma che non mi ha saputo mai dire di no, che se avesse ascoltato mia nonna Maia che citava Rousseau e il suo monito a lasciar prendere la polmonite al bambino che avesse infranto i vetri della sua stanza, per educarlo, forse non saremmo qui, ma io, con petulanza e ammiccamenti filiali, non gliel’ho mai permesso.

Mia mamma che mi ha insegnato ad essere fin troppo sensibile e gentile e generoso fino a quando la mancanza di uno strato di derma e la mia voglia di autoaffermazione non mi hanno portato ad essere un bruto violento ed egoista.

Sono tra i tetti, piango il mio pitbull e la sua fidanzata tigrata, provando a non pensare alle nostre avventure: ho appena saputo da mia sorella piangente che lui si è fatto morire senza mangiare dopo che lei è stata colpita da ictus. Tale padrone tale cane: a due anni stavo crepando di fame anch’io perché rifiutavo ostinatamente qualsiasi cibo che non fosse un pacco di crackers. Dopo una settimana mia madre scoprì che Nicole, la prima fanciulla di cui mi ero innamorato a due anni all’asilo, era a dieta.

Mi appare un gatto, cerco di rassicurarlo emettendo lo squittio dei topi che tanto odio e invece lo blocco come una sfinge, col suo pelo perfettamente camouflage tra mattonelle e comignoli, forse vede nella mia effigie la reincarnazione di Alì.

Finalmente capisco perché ho fatto sempre l’attaccante: mi appare Maradona, che nella sua intervista più bella ai tempi del Napoli, dichiara intimamente al mondo intero che la sensazione che si prova dopo aver fatto gol è bella come il bacio della mamma.

Gianluca Vittorio