Ypsigrock 2013 – day 2: i bassi, lo spazio e l’importanza della bicicletta

di 2bePOP - 11 agosto 2013

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Parole di Marcello Farno
Foto di Serena Belcastro

Scusa ma sei hipster o sei gay?

Al netto della pioggia, è la domanda che circola di più, velata o meno, nell’ambiente. La seconda è quella su chi abbia avvertito i cingalesi che si potesse capitalizzare col commercio degli ombrelli. Peccato per loro che la paura stavolta duri meno del previsto, ma gli sprazzi e l’acqua non aiutano comunque un sabato che si poteva prevedere pieno di sfumature e invece riesce a regalarne solo la metà.

Bernacca disse e non sbagliava. Gira per ora un segno meno di fronte a questo festival, metereologicamente parlando. Fortuna che i ragazzi, as always, non demordono e il via vai di gazebi, teloni, orari e delay è gestito con una lucidità tale che al pubblico resta solo da ripararsi e ammazzare il tempo riempiendolo di arancine e birra.

E dire che il nuovo stage, al chiostro di San Francesco, aveva nel pomeriggio fatto brillare gli occhi a tutti. Un tappeto verde che galleggia su queste mura imbiancate di classicismo, dietro pannelli blu petrolio (molto Residents) e navate piene di gente con lo spritz in mano. Fin quando suonano Black Eyed Dog (applausi, tra l’altro) tutto bene, appena Daniel aka Deptford Goth salta su, fragile e indifeso, la selva si scatena e a metà palco già non senti niente, ammazzato dal brusio. Education, please. Anche fonicamente parlando però, senza bassi per tre/quarti del concerto non si va da nessuna parte, soprattutto se il progetto è così minimale (Bon Iver vs James Blake potresti sintetizzare, tu ascoltatore CO.CO.PRO.).

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Il cielo è grigio, e anche il pistacchio di Fiasconaro non ha lo stesso gusto sotto questa coltre. Le biciclette si, ma lì iniziamo a ragionare su un lido limone&pesca che non delude mai. Altri spazi, altri discorsi. Youarehere, sfortuna loro, sembrano invece sempre attirare l’acqua. Quando finalmente ce la fanno se la cavano con mestiere e timidezza, che non guasta mai. Eccessivamente yorkiani forse, però con belle casse e beat che idealmente corrono sul pavè sconnesso e affascinante di un’immaginaria Rieti-Baston-Rieti. Brizio docet. Sugli Omosumo non vorrei dilungarmi (tra l’altro presenti anche l’anno scorso in camping), il progetto è fuori tempo massimo più del previsto, eccessivamente spinto ma senza ragion d’essere. Per cosa poi? Si assiste a strani fenomeni geopolitici, l’Italia in prima fila a dimenarsi tutta e l’America nel Cycas, fuga di cervelli e, as usual, biciclette.

Il primo scossone vero arriva ad opera di uno che a vederlo non gli daresti una lira. Un metro e sessanta scarso, look da british hooligan, t-shirt superbasic e pinocchietti, la vera rivincita del keep it real. Quando Holy Other inizia ad esplorare gli abissi è già storia ed emozione. Tiro su il cappuccio della felpa, abbasso gli occhi. Chapeau. Bassi profondissimi, solo macchine, nessun laptop maltrattato e chilate d’emozione. Potessi in allegato metterei le lacrime versate.

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Sui Suuns giravano voci di giubilo e speranza musicale neanche fossimo a San Paolo con il Papa venti giorni fa. E sulle prime i canadesi sembravano avere le carte giuste, anche la reticenza avuta sul disco stava per dissolversi. Peccato che a loro insaputa alla batteria si fosse sistemato il tizio dei Planet Funk accompagnato ad un basso sostanzialmente non pervenuto. Quindi, un loop eterno di un unico pezzo per più di un’ora, bello tutto il magma delle distorsioni ma lo spazio mica lo conquisti così. Mancano i pezzi e tutta la spina dorsale necessaria per resistere al tempo e all’usura, altrimenti tra un paio d’anni saranno riformati per sovrannumero. Unica attenuante il tempo che non è stato dalla loro, interrompendo il set. Gli diamo un’altra chance o no? Di certo l’emozione più forte arriva altrove, in un magnifico tete-a-tete con la cantante Arisa. Sincerità.

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Intanto con Erol Alkan si aprono le gabbie dei tagadà della riviera. Scaletta electro-euro-disco-cerniera, coi synth cari alla migliore tradizione hitmaniaca. A parte qualche slancio più progressive-english, il resto è modernariato per un pubblico che comunque balla, per te balla balla. Il Bez della situazione è sicuramente Vito aka il capovillaggio, che sale sulle americane e manca poco così a uno stage diving degno del miglior Henry Rollins.

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In camping si respira tutt’altra atmosfera. Prima, col ragazzo HLMNSRA, che violenta la sua SP 404 come a nessuno mai avevo visto fare, background hip hop sopra al quale si disegnano geometrie Brainfeeder. Applausoni e speranza grossa per il divenire. Il set di Robert Eno parte dub tech, su coordinate così nere e visionarie che non puoi fare a meno di lasciarti ipnotizzare. Orizzonti, giasai. Poi entra in gioco anche Guido Savini, outta SRSLY e Did, e la faccenda diventa più aperta, ma sempre carica e lisergica. Davanti alla console i ragazzi si lasciano ammaliare, all’indomani più newsletter di Blackest Ever Black per tutti. Il futuro era la biblioteca.

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